Paolo Delle Monache

Tratto dal catalogo della mostra NON-FINITO, INFINITO, electa, collana pesci rossi, 2013
in occasione della mostra alle Terme di Diocleziano, Roma

DUE LINEE PARALLELE SI INCONTRANO SOLO ALL’ INFINITO
Paolo Delle Monache e Benoit Felici

Partiamo da questa frase per introdurre quello che abbiamo cercato di fare con i nostri lavori, in quanto ci sentiamo molto simili alle linee parallele. Le nostre ricerche, autonome, diverse e inconsapevoli l’una dell’altra, si sono incontrate nel non-finito, infinito. Le abbiamo così immaginate sovrapponibili e complementari, due facce di una stessa medaglia. Parallele, si sono riconosciute tra loro nella parte mancante a cui approdano da due percorsi opposti. Ne è scaturito un ibrido che ci ha fatto sentire come quei restauratori di sculture antiche che trovano due frammenti di una stessa opera, che combaciano tra loro ricreando un frammento più ampio, ma comunque incompleto. Un ibrido è del resto anche il suolo italiano, con la sua doppia congerie di non-finiti: dal sottosuolo affiorano frammenti di antichi reperti e sopra il suolo edifici mai terminati.
Abbiamo cercato di parlare dell’incompiuto nel paesaggio e dell’incompiuto che è dentro di noi, considerando quello che ci circonda una metafora di quello che siamo, e il nostro lavoro un mezzo per prenderne atto.
Osservare i non-finiti architettonici del presente ci ha fatto intuire l’assenza di futuro. Riflettere sui frammenti di bellezza del passato ci ha fatto tornare voglia di futuro. Attraverso la forma del frammento abbiamo pensato di poter nuovamente immaginare il futuro: l’incompiuto come qualcosa di vivente, come lo è il seme, che è un frammento dell’albero che sarà, un progetto lunghissimo che un giorno (ci auguriamo) arriverà alla bellezza inseguita.


Tratto dal catalogo della mostra Non-finito, infinito, electa, collana pesci rossi, 2013

in occasione della mostra alle Terme di Diocleziano, Roma

UNA CITTA’ DENTRO DI NOI
Condivido con Benoit la simpatia per il frammento, forma in cui identifico me stesso quale somma di incompiuti, di brevi periodi di tempo in cui ho vissuto in città che ritrovo a volte nei sogni, in cui torno ad abitare le case del mio passato, avvolto dal leggero senso di colpa di chi sa che quello spazio ora ha un altro padrone ma continua ad essere ancora mio, e che non saprei spiegare il mio essere lì al nuovo inquilino, che potrebbe tornare da un momento all’altro e che probabilmente non capirebbe questi ragionamenti fatti nella sua casa. Quello che cerco di dire è che nel tempo tutti questi luoghi sono diventati un unico contenitore, che nella realtà non mi è possibile visitare se non sotto forma di scultura. In altre parole ognuno è la somma di tutti i luoghi in cui è stato, ritorna, di cui sente la nostalgia o ha incontrato sullo sfondo di una pittura, e che forse esiste una “città” dentro di noi, una conchiglia esistenziale secrezione del nostro vissuto, un Arlecchino di posti incastonato nella memoria.
Da tempo penso possa esserci una corrispondenza tra memoria e apparato digerente delle mucche.  Tra il loro brucare e convogliare tutto in uno spazio dentro di loro (da cui in un secondo momento attingono ruminando per metabolizzare il loro operato) e il modo che la memoria ha di affastellare, in ognuno di noi, immagini di luoghi attraversati.
Questo per dire che alcune mie sculture sono la rumina dei miei ricordi, modellati in modo da circoscrivere uno spazio, o composizioni di frammenti che crescono come una pianta. Il frammento è diventato un metodo, un modulo con cui dare vita alle forme.



Tratto dal catalogo della mostra EXTRA-LUOGHI, Museo Marino Marini, 
Pistoia,
Ed. Renografica, 2008

EXTRA-LUOGHI
Non-luogo, quando mi sono trovato di fronte a questa parola ho pensato che li’ dovevano esserci non-uomini con non-cani, non-desideri, non-senso, non-amore. Questo ha innescato in me la voglia di opporre al termine non-luogo la parola extra-luogo. Di cercare luoghi in grado di diventare una sala acustica dell’ essere, in cui avvertire occupandoli qualcosa di extra: che fossero tempio, nel senso che suggerissero la contemplazione portandoti a pensieri extra-ordinari. Uno di questi extra-luoghi e’ il museo Marino Marini. Li’ ho incontrato il colore sulla scultura, il sentimento del tempo sulla superficie delle opere di Marini e mi sono trovato difronte a sculture con un titolo straordinario come Miracolo. Ho creduto questa parola la confessione di cio’ che quelle forme avevano compiuto attraversando la storia, le epoche, per arrivare a noi (a volte a cavallo) con lo sguardo disincantato e pieno di entusiasmo da voler contenere qualche metro di cielo tra le braccia aperte; o, altre ancora, rivolto all’ abisso da cui le mani di Marini le aveva fatte affiorare. Marino Marini e’ stato il primo extraluogo in cui mi sono imbattuto, caledoscopio di un passato etrusco (che condivido per motivi geografici), di un sentimento di ironia, leggerezza, precarieta’. E’ una origine sicura a cui ne affianco altre.
Extra-luoghi con il passare degli anni sono diventati anche un gruppo di lavori recenti in cui unisco diversi momenti del mio passato la cui sintesi e’ una sfoglia di architettura. Compongo citta’ che vedo solo quando chiudo gli occhi. E’ solo allora che i diversi luoghi in cui ho vissuto si possono unire formando un continuo come nei sogni in cui tutto e’ e al contempo si contraddice.
In altre parole ho una grande simpatia per l’ apparato digerente delle mucche. Per il loro brucare e coinvogliare tutto in uno spazio dentro di loro da cui in un secondo momento attingono ruminando per metabolizzare il loro operato.
Extra-luoghi sono la rumina dei miei ricordi, modellati in modo da circoscrivere uno spazio, intrecciato da una sorta di fibra-merletto di bronzo su cui il colore e’ una eco del tempo.



Tratto dal catalogo della mostra EX-VOLTO, Museo Barracco, Roma, Ed. Renografica, 2008


EX – VOLTO
Ex-volto, dal volto, a partire da lì (o meglio, a ripartire) da quell’incastro di organi ricettivi, quattro su cinque, che compongono il volto. Volto-scultura che nasce dal quinto dei sensi: il tatto, che sta nelle mani desiderose di entrare nel volto attraverso l’impronta, la manipolazione. Scultura-volto esigenza antica: il volto è uno dei motivi che hanno fatto nascere la scultura in quanto doppio del vero, presenza che doveva sopperire a una assenza, dare il dono dell’ubiquità a chi veniva ritratto, o diventare un exemplum da seguire ed emulare. Volto che ha perso il suo primato essendo la scultura, oggi, soprattutto congerie di oggetti. Sono gli oggetti il nuovo volto umano, memoria effimera, forse vuota, in cui ci si accanisce a trovare la sembianza del contemporaneo, un misto di tragico, inutile gioco di società. Il volto resta comunque l’involucro del pensiero, il contenitore dell’attività dell’immaginare, la porta del respiro, il mezzo con cui guardare, ascoltare, ridere, rendersi conto di un altro volto. Ex-volto cela in sé ancora un aspetto della  mia scultura. Sottraendo una elle ne risulta Ex-voto, un modo per accostarsi ai miei frammenti di corpo in maniera più naturale, memori delle civiltà passate che ci hanno abituati a vedere porzioni umane intese come organi da guarire, da preservare: piedi, seni, genitali, occhi. È il volto, nel mio caso, a diventare ex-voto, luogo da salvare, che necessita di protezione, di aiuto.


Tratto dal catalogo della mostra EX-VOLTO, Museo Barracco, Roma, Ed. Renografica, 2008

ATELIER
Le mie sculture sono pensate e realizzate in bronzo in quanto materiale in grado di autosostenersi e supportare gli azzardi d’equilibrio che sedimento.
Volti, mani e architetture sono elementi con cui costruire una presenza cercando di salire come una pianta. La memoria è il filo di Arianna che seguo in questo mio affastellare (un filo fatto di tante misure di spago che annodo e saldo tra loro).
Intreccio mani per comporre alberi che hanno come lontana eco la metamorfosi di Dafne.
Stratifico sottili architetture di luoghi in cui sono stato, ritorno o ho visto sullo sfondo di alcune pitture.Impilo volti sognanti, come scatole che anziché contenere la propria sottomisura l’accolgono su di sè, sulla guancia o sulla nuca.
Circoscrivo uno spazio con piedi, gambe e un volto per delimitare un luogo di contemplazione.
Il perché esatto non mi è per fortuna del tutto chiaro, posso però dire che è bello provare a dare vita alle forme.
Da qualche tempo in alcune sculture ricorre la sagoma dell’Italia quale base o fondamenta. Ho simpatia per quella forma in quanto perimetro di un terreno gravido a sua volta di forme, di reperti, e che circoscrive un luogo in cui si è perennemente costruito, distrutto, ricostruito, tramandato, vissuto. Un luogo in cui scavare e trovare e in tutto questo simile a un atelier, un atelier peninsulare.