Tratto dal catalogo della mostra EX-VOLTO, Museo Barracco, Roma, Ed. Renografica, 2008
PAOLO DELLE MONACHE
Una casa sopra una casa e una testa sopra una testa e poi anche una mano sopra una mano sopra un’altra mano, a costruire figure che non ci sono, un po’ come se la colonna infinita di Brancusi prendesse improvvisamente la vita dal disordine del quotidiano e della memoria, fuori dall’algida e mirabile sintesi dell’astrazione per andarsi a sporcare a confondere con tutto ciò che appartiene all’esperienza, al sogno (ancora, non quello di una testa ridotta ai suoi tratti essenziali, ma quello pieno di eventi incomprensibili, di narrazioni non conseguenti, quel sogno a occhi chiusi ma aperti sul di dentro che già Rosenblum, citando Moreau, riconosceva come tra gli antenati nobili di Paolo Delle Monache, scultore inattuale se altri ve ne sono, e colto di una cultura non libresca ma di passione e di tatto, di stomaco e di testa).
Crescono su se stesse, in misterioso equilibrio, come un castello di carte (non casualmente citato con grande evidenza in alcune di queste opere, e d’altra parte non si può dimenticare che Melotti definiva la scultura “un gioco che, quando riesce, è poesia” 1), fragili ma non per questo precarie, intenzionate a rimanere lì ben più a lungo di quanto non direbbe l’evidenza; figlie, allora e subito, di una sapienza fabrile che non si scopre certo oggi, ma che oggi sembra in qualche modo prendersi il lusso di giocare con se stessa. Una sapienza libera anche dai timori generati dal rispetto per i maestri cui l’artista, da sempre, guarda con atteggiamento antico, vale a dire quello della nourriture, del nutrimento indispensabile per diventare compiutamente se stessi (che è un po’ l’idea del rapporto con i classici evidenziata in tanti illuminanti scritti di Giuseppe Pontiggia, le cui riflessioni mancano ogni giorno di più, nel cicaleccio fastidioso di un pensiero sempre più debole, non per scelta ma per limitatezza). E crescono, queste immagini, fino al punto in cui si trasformano in qualcosa d’altro, in una forma riconoscibile come e più di quella delle singole facciate, dei particolari architettonici che costituiscono lo scheletro dell’opera, crescono fino a trasformarsi in una fantastica carta geografica tridimensionale, riconoscibile omaggio a un territorio dal quale Delle Monache attinge le fonti primarie del proprio nutrimento e a una cultura che ancora oggi segna, in maniera indelebile, il fare di un artista che di quella cultura si sente figlio e si prova ad essere continuatore, ben sapendo dei rischi connessi a questa scelta (ma è poi una scelta, o è una necessità non contrattabile, come sembra di intuire dalle parole e dalle opere in questione?).
Crescono, e si vede l’Italia, la forma dell’Italia che si costruisce come risultato, per l’appunto, di una sedimentazione di immagini, come memoria che prende corpo e si fa luogo. Luogo, memoria, sedimentazione: basterebbero forse questi termini a definire una poetica, ma a ben vedere essi non sembrano sufficienti a esaurire interamente la complessità che il dialogo tra le forme instaura all’interno di ogni singola opera, e tra un’opera e l’altra. Ovvero, agire su questa forma – già di per sé appartenente all’immaginario collettivo -, costruendo su di essa per via di addizione di ulteriori forme già note, quelle di edifici più o meno riconoscibili (e poco importa se essi siano tratti dalla realtà o siano frutto d’invenzione, ciò che conta è l’agire su una serie di canoni come la facciata, il portico, la torre, il frontone, il campanile, gli elementi, vale a dire, di una grammatica del costruire che si è costituita, nel tempo, come luogo condiviso), tale agire, si diceva, implica la coscienza della sfida di operare su un’iconografia già data, che potrebbe rivelarsi già esaurita prima ancora di farsi forma. Invece, proprio partendo da questo assunto, Delle Monache crea un universo che si origina dalla sedimentazione, ne riconosce e ne rivendica l’esistenza (per dire, si potrebbe ipotizzare una genealogia che prende avvio dall’incunabolo iconografico di Cimabue per giungere alle diverse versioni di Fabro, divenute non a caso tra le rare icone riconosciute internazionalmente dell’arte italiana degli ultimi decenni) e, soprattutto, ne ricava un motivo che non è più solo iconografico o formale, ma investe le ragioni più intime dell’agire. Allora, il crescere dei singoli elementi si fa metafora di una concezione artistica fondata non solo su un principio culturale, ma su un principio naturale, la forma che cresce su se stessa come una pianta, che si sviluppa dalle radici (la sagoma della penisola) e si innalza sino al più alto punto possibile; tanto che, certo volutamente, il medesimo impianto viene ripetuto su altri soggetti, siano essi una testa o una mano, a ribadire una scelta espressiva prima ancora che a definire un pretesto figurativo.
Allo stesso modo, e per converso, la scelta di far convivere differenti immagini legate da un filo comune induce naturalmente a pensare a de Chirico e ai suoi manichini, al “Trovatore” (e Delle Monache, che poco ama la citazione esplicita, ma non rinuncia a disseminare indizi nelle sue opere, include porticati di sapore metafisico nell’apparente disordine di queste architetture immaginarie, e in altri lavori), e forse anche alla prassi disegnativa di Aldo Rossi, architetto profondamente legato a quel clima culturale; ancora una volta, allora, il moltiplicarsi delle forme corrisponde al moltiplicarsi delle suggestioni e, in definitiva, al moltiplicarsi delle interpretazioni possibili, in una sorta di continuum operativo e immaginativo, che infine prende corpo scultoreo, insieme antichissimo e contemporaneo (e, posti i riferimenti a De Chirico e Rossi, un pittore e un architetto, non sarà del tutto fuori luogo tornare a Melotti, e alla sua idea di scultura come disegno nello spazio, se non altro per tentare di seguire con le parole il filo delle immagini che le originano).
Altre domande, altre questioni, poi, si originano da queste, e dal corpus intero delle opere di ieri e di oggi: viene da domandarsi, ad esempio, quale sia il luogo privilegiato di visione dell’opera, se è vero che essa si sviluppa da un lato sul piano, dall’altro nelle tre dimensioni, in una ricercata assenza di un punto di vista unico; tanto che, per paradosso, non si può escludere che la visione ideale sia quella dall’alto, la stessa che, nella realtà, permetterebbe di vedere la sagoma italiana così come viene proposta dalla sua rappresentazione grafica. Sicché, vista dall’alto, l’opera apparirebbe come un’autentica proliferazione dalle viscere della forma, ancora in parallelo con un meccanismo di crescita naturale, mentre la stessa immagine costruita a partire dal muro si rivela come tour de force sull’idea del rincorrersi dei piani che costruiscono volume a partire dalla sua negazione (a parte talune forme semicircolari, pressoché tutti gli elementi sono fortemente e volutamente bidimensionali, il che risulta poi ancora più paradossale a fronte di una scultura originata da figure architettoniche…).
Eppure, soffermarsi su tali evidenze non sembra ancora fornire una risposta adeguata al processo di visualizzazione del pensiero messo in atto da Delle Monache; necessario è allora rifarsi anche ad altre sue opere, nate sia negli anni precedenti che in questi ultimi mesi, là dove, ad esempio, gli omaggi alla “Pisana” si caratterizzano, anche, per gli occhi chiusi e là dove alcune teste si ritrovano a guardare attraverso porticati o attraverso strutture che consentono solo un piccolo spiraglio alla vista. Come se la condizione del vedere fosse, sempre, una condizione differita, ostacolata, che si determina a partire da due condizioni all’apparenza opposte, in realtà convergenti verso un unico obiettivo. Da un lato, il vedere è il vedere cieco del sogno, dell’immaginazione, dell’assoluta libertà dalla contingenza oggettiva (il voyant di Rimbaud, insomma, per rimanere in un ambito culturale già ricordato e particolarmente caro all’artista; e merita forse una sottolineatura il fatto che, pur trovando tra i propri ispiratori una serie di personaggi che sono stati, a loro volta, punti di riferimento essenziali per Breton, Delle Monache non scivoli mai verso un climi e linguaggi surrealisti, se ne tenga anzi volutamente distante), dall’altro è la possibilità di vedere attraverso il sovrapporsi di immagini realizzate nel corso del tempo. E’ la possibilità di superare, attraverso il pensiero, gli ostacoli posti alla vista dall’eccesso di immagini originato da quanto è stato pensato, dipinto, scolpito, costruito, in millenni di storia, senza il bisogno di scomodare l’attuale eccesso di informazione tanto caro alla vulgata di certa contemporaneità. In ogni caso, entrambe le ipotesi praticate da Delle Monache conducono alla considerazione che per l’artista non è immaginabile una visione non filtrata del reale né, tanto meno, dell’opera d’arte; allo stesso tempo, entrambe le ipotesi trovano la loro soluzione nell’accentuazione del carattere visionario dell’esperienza artistica e delle immagini che da essa prendono vita. E s e questo assunto è scontato nella pratica del vedere a occhi chiusi, meno lo è nella visione a occhi aperti; ma proprio quelle teste racchiuse dentro immaginarie gabbie architettoniche di questo dicono, di un rapporto con il mondo e con i suoi luoghi che si forma a partire da una figura geometrica, da un arco, da una serie di finestre. Detto altrimenti, è come se i personaggi di Delle Monache non potessero che vedere forme originate da quelle stesse forme che impediscono loro una visione aperta, completa, priva di ostacoli, del reale; ecco allora che si comprendono meglio gli omaggi all’architettura e, al contempo, si comprende meglio il perché della frammentazione delle forme, l’apparente mancanza di unità e compiutezza, il corpo dato sempre per via di particolari, e mai nell’intero )2.
Da qui, da queste premesse, nasce il mondo incantato (con accenti talvolta anche ironici, e autoironici) di Delle Monache, da una coscienza acuta del limite, e insieme dal desiderio di superarlo, dalla consapevolezza che solamente a partire dal limite può dispiegarsi una gioia del fare incarnata in un equilibrio miracolosamente ritrovato, in una patina memore di antichi intonaci, nelle pale di un mulino che potrebbe anche essere una girandola…
1) Merita forse di essere riportata per esteso la citazione dello scultore, perché suggerisce una vicinanza sorprendente proprio a questa fase della ricerca di Delle Monache, pur nelle evidenti differenze espressive che separano i due :”Ma ancora vorremmo trovare nelle nostre opere l’eco dell’antico contrappunto, la modulazione. Nel divertimento delle parti, non “piani” correttamente giustapposti e palesi (modellazione), ma piani che, giocando fra loro, danno vita a piani immaginari. Un gioco che, quando riesce, è poesia”.
2) Ancora Rosenblum coglieva questo aspetto della frammentazione non solo nel corpo, ma nella totalità del rapporto con il passato .”Specialmente sul terreno italiano, le memorie più profonde evocate da questo linguaggio di frammenti vengono, naturalmente, dall’antichità, la cui arte e civiltà conosciamo e veneriamo primariamente attraverso le parti sopravvissute nelle pitture murali danneggiate di Pompei, nella ossatura incompleta del Colosseo (corsivo mio, n.d.r.) o negli innumerevoli marmi di dei e dee che, anche se i loro arti possono essere stati amputati dal tempo, continuano a incantare”.
PAOLO DELLE MONACHE
A house on a house and a head on a head and then even a hand on another hand to build figures that there aren’t as if the Brancusi’s infinitive column suddenly came into life from the daily disorder and from the memory out of the algid and mirable synthesis of abstraction to go to get dirty and blur with all what belongs to experience, to the dream (again not the one of a head reduced to its essential traits, but the one full of incomprehensible events, of consequent narrations, that dream with eyes closed but open inside that Rosenblum quoting Moreau, has already recognized as Paolo Delle Monache’s noble ancestors, not topical sculptor if others there are and learned of a culture not from books but from passion, from touch, from the stomach and from the head). They grow up on themselves in a mysterious balance as in a castle of cards (not casually quoted with great force) in some of these works and by the way we cannot forget that Melotti defined sculpture ”a game that when it is successful is poetry”(1), frail but not for this unstable, intending to stay there much longer than what facts would say; daughters, then and at once of a making wisdom that it is not to be found out today, but that today it seems someway to allow itself the luxury of playing with itself. A free wisdom from the fears coming from the respect for the masters the artist has always looked at with an old attitude that is to say that of the nourriture, of the essential nourishment to become completely oneself (which is a little the idea of the relationship with the classics highlighted in so many enlightening writings by Giuseppe Pontiggia, whose reflections are missing and missing every day in the annoying chattering of a weaker and weaker thought not for choice but for narrowness). And they grow, these images to the point they turn themselves into something else in a recognizable shape as and more than the one of the single fronts, of the architectural details which constitute the framework of the work, they grow until turning into a fantastic three-dimensional geographic map, recognizable homage to a territory from which Delle Monache draws the primary sources of his own nourishment and to a culture which still marks in an indelible way the making of an artist and of that culture he feels to be the son and tries to be the follower, knowing well the risks connected to this choice (but is it a choice or is a non negotiable necessity as it seems to intuit from the words and from the works at issue?). They grow and you can see Italy, the shape of Italy that builds up itself as result precisely of sedimentation of images, as a memory which takes shape and makes itself a place. Place, memory, sedimentation. These terms would be enough to define a poetics, but if you look well at it, they are not enough to exhaust completely the complexity the dialogue among the shapes sets up inside every single work, and between a work and another one. Or rather acting on this shape – in itself already belonging to the collective imaginary – , building on it through an addition of further shapes already known, those of buildings more or less recognizable ( and it little matters if they are drawn from reality or they are the fruits of invention, what matters is the acting on a series of canons like the front, the porch, the tower, the gable, the bell tower, the elements that is to say of a building grammar which is composed, in time, as a shared place), such acting, we said, involves the conscience of the challenge to work on an iconography already given, which might reveal to be already exhausted still before its making shape. Instead beginning precisely from this argument Delle Monache creates a universe which originates from a sedimentation , it recognizes and claims the existence of it ( just to say one might suppose a genealogy which starts from the iconographic incunabulum of Cimabue to reach the different versions of Fabro, become not haphazardly among the rare icons internationally recognized of the Italian art of the latest decades) and above all it gets a motif which is not any longer only iconographic and formal but hits the innermost reasons of acting. So the growing of the single elements becomes a metaphor of an artistic conception founded not only on a cultural principle, but on a natural principle, the shape which grows on itself like a plant which develops from the roots (the outline of the peninsula) and that arises until the highest possible point, so much that surely intentionally, the same system is repeated on other subjects, they may be a head or a hand, to stress an expressive choice still before defining a figurative pretext. In the same way or on the contrary, the choice to have different images linked together by a shared thread leads naturally to think to de Chirico and to his manikins to the “Trovatore” (and Delle Monache who little loves the explicit quotation does not give up to widespread clues in his works, he includes arcades of a metaphysical taste in the appearing disorder of these imaginary architectures , and in other works) and perhaps even to drawing practice of Aldo Rossi an architect deeply linked to the cultural atmosphere; a time again so the multiplying of shapes corresponds to the multiplying of suggestions and definitively to the multiplying of the possible interpretations in a sort of operative and imaginative continuum which finally takes the shape of a sculpture body both very old and contemporary (and given the references to De Chirico and Rossi a painter and an architect, it will not be out of place to come back to Melotti, and to his idea of sculpture as a drawing in the space at least to try to follow with the words the thread of the images which come out from it). Other questions, other matters, then, they have origin from these, and from the whole body of the works of the past and of the present: we feel to wonder for example which the privileged place of sight of the work is, if it is true that it develops itself on one side on the plane, on of the other one in the three dimensions, in a refined absence of a unique point of view; so much that, by paradox, you cannot exclude that the ideal vision is the one from above, the same that, in the reality, would allow to see the Italian outline as it is proposed in its graphic representation. Therefore, seen from above, the work would appear as an authentic proliferation of the bowels in the shape again in parallel as a mechanism of natural growth, while the same image built starting from the wall reveals to be like tour de force on the idea of running after each other of the planes which build volume coming from its negation (except some semicircular shapes, almost all the elements are dramatically and intentionally bidimensional, which results then much more paradoxical with respect to a sculpture originated by architectonic figures…). Still, dwelling on such obviousness does not seem to give a suitable answer yet to the process of visualization of the thought carried out by Delle Monache; it is so necessary to go back even to other works of his, born both in the previous years and in these last months, there where, for example, the Homages to the “Pisana” are also characterized by the eyes closed and where some heads find themselves to look through arcades or through structures which just allow a narrow opening to the sight. As if the condition of sight would always be a deferred, obstructed one , which is determined beginning from two conditions apparently opposed, in reality converging towards a unique target. On one side seeing is the blind seeing of the dream, of the imagination, of the absolute freedom from the objective contingence (the voyant by Rimbaud, in short, just to stay in a cultural field already mentioned and particularly dear to the artist; and it deserves perhaps an emphasis the fact that still finding among his inspirers a series of characters who have been, on their turn, essential point of reference for Breton, Delle Monache never slides over surrealistic climates and languages, he intentionally keeps at a distance), on the other one it is the possibility to see through the overlapping of images realized during the time. It is the possibility to overcome , through the thought, the obstacles given to the sight by the excess of images originated by what has been thought, painted, sculptured, built in millenniums of history without the need to trouble the present excess of information so dear to the vulgate of certain contemporaneity. In every case both the hypotheses practised by Delle Monache lead to the consideration that for the artist it is neither conceivable a non filtered vision of the reality nor, least of all, of the work of art; at the same time both the hypotheses find their solution in the intensification of the visionary character of the artistic experience and from the images that from them come to life. And if this argument is predictable in the practice of seeing with eyes closed, less is in the vision with open eyes; but really those heads enclosed into imaginary architectonic cages of this, say, in a relationship with the world and with its places that it starts from a geometric figure, from an arch, from a series of windows. Otherwise it could be said that it is as if the characters by Delle Monache could not see shapes originated from the same shapes that impede them an open vision, completed, devoid of obstacles, of the reality. Here is so that we can understand better the homages to architecture and, at the same time we can understand better the reason of the fragmentation of shapes, the apparent lack of unity and completeness, the body always given through details and never on the whole (2). From here, from these preliminary remarks, an enchanted world comes into being (with accents sometimes even ironical, and self ironical) of Delle Monache, from an acute conscience of the limit, and together from the desire to overcome it, from the awareness that only from the limit can spread a joy of making embodied in a balance miracously found again, in a patina mindful of old plasters. In the sail of a wind mill that might be a catherine – wheel.
(1) It is worth to reporting full the sculptor’s quotation, because it suggests an amazing closeness really to this Delle Monache’s stage of research, even in the clear expressive differences which separate the two. “But we still would like to find in our works the echo of the old counterpoint, the modulation. In the amusement of the parts, not rightly juxtaposed and evident planes (moulding), but planes which, playing among them give birth to imaginary planes. A game that when it is successful, is poetry.
(2) Again Rosenblum caught this aspect of fragmentation not only in the body, but in the whole of the relationship with the past. “Especially on Italian soil, the deepest memories conjured up by this language of fragments come, of course, from antiquity, whose art and civilization we know and venerate primarily through surviving parts, whether in the damaged wall-paintings of Pompeii, the incomplete shell of the Colosseum (my italics, author’s note), or the countless marbles of gods and goddesses who, even though their limbs may have been amputated by time, continue to cast their spell”.
Tratto dal catalogo della mostra REPERTI ULTIMI, Museo Lapidario e Galleria Estense, Modena,
Ed. Renografica, 2011
“Qu’est-ce que la sculpture moderne?” domandava retoricamente il titolo di una celebre mostra al Centre Pompidou alla metà degli anni Ottanta. Erano gli stessi anni in cui Paolo Delle Monache iniziava i suoi studi all’Accademia e credo che quell’interrogativo abbia più volte accompagnato le sue riflessioni sulla natura dell’opera sua e più in generale del dirsi scultore alla fine del XX secolo. Poiché, da subito, la sua ricerca si è inserita all’interno di un percorso, storico e d’affetti intellettuali, ben definito per quanto variato nei riferimenti e nelle passioni; un percorso che trovava il suo punto d’appoggio primario in Arturo Martini, nel suo rapporto mai pacificato e ricco di intuizioni fertili con la tradizione, in quella libertà d’approccio con il passato che faceva da preludio alle strepitose intuizioni raccolte in “Scultura lingua morta” e nelle coeve prove plastiche. Essere moderni – e più, per Delle Monache, contemporanei – mantenendo saldi i legami con una storia fatta non solo di forme e immagini, ma anche e soprattutto di ragionamenti intorno a quelle forme e a quelle immagini, e al loro senso. Questo, sin dall’inizio, è stato il fulcro della ricerca di Delle Monache, che nei quindici anni successivi ai suoi esordi è maturata attraverso una coerenza che non si è incarnata nella ripetizione di uno stilema o di un’iconografia, ma si è palesata in un costante lavorio attorno ad alcuni temi primari, elaborati di volta in volta attraverso differenti modi d’apparizione. La figura umana, innanzitutto, dapprima frammentata, ridotta a testa, braccia, mani, piedi, a particolari che valevano per il tutto, e poi lentamente ricomposta sino a giungere alla figura intera che oggi si confronta con altre presenze, con altri oggetti del mondo. Un’evoluzione transitata attraverso le sorprendenti forme di vegetali costituiti da intrecci di braccia e mani disposti l’uno sopra all’altro, in un primo approccio – ancora per via di metafora – a quel tema della verticalità che accompagna l’agire scultoreo dai primordi di ancestrali ritualità. Una risposta alla domanda iniziale è forse questa, anch’essa proveniente non a caso dagli esempi più alti della scultura moderna, Brancusi e Giacometti, il tentativo di far convivere il punto estremo di tenuta della tradizione rappresentato dai frammenti di corpo scolpiti da Rodin con l’irruzione di un simbolismo primitiveggiante; conciliare il frammento e l’intero, orizzontalità e verticalità. In fondo, per estensione, natura e cultura. Dopo questa lunga fase, a metà del primo decennio del XXI secolo, appare il secondo motivo iconografico che caratterizza l’opera di Delle Monache, quelle architetture a loro volta frammentate e poi ricomposte a formare vasi, crateri, colonne: forme, ancora, primarie, essenziali, costituite però da particolari articolati, complessi, elaborati. Visivamente, sculture fatte di architetture; concettualmente, sculture fatte di memorie, di immagini e di forme che provengono da una memoria insieme individuale e collettiva. E’ la seconda risposta possibile all’interrogativo iniziale : scultura è memoria che si fa materia e spazio, che si fa corpo. Non a caso, il passo successivo è quello dell’unione di corpi e architetture, che si rende esplicito in “Ready-made in Italy”, dove la sagoma umana è formata dalle facciate degli edifici, opera che come poche altre in questa vicenda assume il valore di una dichiarazione di poetica. Un valore che viene conferito anche da quell’elemento witzig che sta nel titolo e nella figura stessa, e che ritorna con una certa frequenza nell’intero percorso di Delle Monache, un elemento ironico che da un lato è nelle corde naturali, caratteriali dell’artista, dall’altro rimanda alla lezione del Grande Metafisico, ulteriore sponda intellettuale rinvenibile in questa vicenda, ben al di là di qualche pur evidente rimando iconografico. Ora, giunti all’attualità delle opere inedite pubblicate in questo volume, il nucleo attorno al quale si è dipanata nell’ultimo biennio la ricerca di Delle Monache sembra essere quello della possibilità di far convivere, all’interno di un medesimo spazio scultoreo, di una stessa immagine, la figura umana e l’architettura nelle sue diverse conformazioni. Per raggiungere questo obiettivo, l’artista ha ripreso anzitutto un elemento presente già in alcune delle sue opere precedenti, vale a dire l’esasperazione dimensionale : là dove in precedenza gli arti o le teste assumevano – solitarie nello spazio – proporzioni gigantesche, ora i personaggi sono, a seconda dei casi, piccolissimi rispetto alle colonne e ai crateri nei quali si trovano, oppure ancora una volta enormi rispetto alla sagoma dell’Italia sulla quale meditano, riposano, dondolano. La giusta proporzione non si dà, queste sculture sono sempre raffigurazioni di uno scompenso, che conferisce loro un carattere onirico (e insieme ludico). D’altra parte, “Sogno” è il titolo delle prime teste scolpite da Delle Monache, e la colonna di teste realizzata nel 2006 titola “Sognario”: come se, nel corso di una decina d’anni, lo scultore fosse partito dalla volontà di suggerire, attraverso un capo reclinato con gli occhi chiusi, il desiderio di sognare, e fosse infine giunto a fornire non un’illustrazione didascalica di quel momento, ma l’immagine della potenzialità di quel momento, nonché, naturalmente, tutto ciò che questo comporta in termini di rapporto col mondo e con i processi della creazione artistica (come altri moderni hanno insegnato nel corso degli anni Venti). Poiché, in effetti, anche se i volti di Delle Monache non sono caratterizzati individualmente, psicologicamente, essi non sono pura forma, ma figura umana nel senso più pieno del termine; pur in un mondo parallelo, vivono. A proposito di questo tema presente nella scultura di Delle Monache, mi accadeva peraltro di scrivere pochi anni fa : “alcune teste si ritrovano a guardare attraverso porticati o attraverso strutture che consentono solo un piccolo spiraglio alla vista. Come se la condizione del vedere fosse, sempre, una condizione differita, ostacolata, che si determina a partire da due condizioni all’apparenza opposte, in realtà convergenti verso un unico obiettivo. Da un lato, il vedere è il vedere cieco del sogno, dell’immaginazione, dell’assoluta libertà dalla contingenza oggettiva (…), dall’altro è la possibilità di vedere attraverso il sovrapporsi di immagini realizzate nel corso del tempo. E’ la possibilità di superare, attraverso il pensiero, gli ostacoli posti alla vista dall’eccesso di immagini originato da quanto è stato pensato, dipinto, scolpito, costruito, in millenni di storia, senza il bisogno di scomodare l’attuale eccesso di informazione tanto caro alla vulgata di certa contemporaneità. In ogni caso, entrambe le ipotesi praticate da Delle Monache conducono alla considerazione che per l’artista non è immaginabile una visione non filtrata del reale né, tanto meno, dell’opera d’arte; allo stesso tempo, entrambe le ipotesi trovano la loro soluzione nell’accentuazione del carattere visionario dell’esperienza artistica e delle immagini che da essa prendono vita. E se questo assunto è scontato nella pratica del vedere a occhi chiusi, meno lo è nella visione a occhi aperti; ma proprio quelle teste racchiuse dentro immaginarie gabbie architettoniche di questo dicono, di un rapporto con il mondo e con i suoi luoghi che si forma a partire da una figura geometrica, da un arco, da una serie di finestre”. Ecco perché, allora, il titolo alquanto enigmatico di “Reperti ultimi” conferito a questo volume : per definizione, il reperto è un oggetto trovato al termine di una ricerca meticolosa, è il risultato di un processo di indagine, di azioni e riflessioni. Le sculture di Delle Monache questo oggi sono, il risultato di una ricerca nella storia della scultura moderna e insieme nella propria storia creativa; reperti sicuramente, ultimi solo in ordine cronologico.
English text
“Qu’est-ce que la sculpture moderne?” was the rhetorical question asked by the title of a celebrated exhibit at the Centre Pompidou in the mid-80s. These were the same years in which Paolo Delle Monache began studying at the Academy and I feel that that question has more than once accompanied his reflections on the nature of his work and more in general of his being a sculptor at the end of the 20th century. From the very first moment, his research became part of a horizon, both historical and of intellectual affection, that was well defined though varied in its references and passions; a path that found its resting point in Arturo Martini, in his never-pacified relationship rich in fertile intuitions with tradition, in a freedom of approach with the past that was the prelude to the striking intuitions collected in “Still language sculpture” and in his coeval plastic experiments. Being modern – and more so, for Delle Monache, contemporary – maintaining strong ties with a history made not only of shapes and images, but also and above all of reasoning around those shapes and those images, and their meaning. This, from the very beginning, was the heart of the research of Delle Monache, who in the fifteen years that followed his debut has matured through a consistency that has not materialised in the repetition of a stylistic feature or iconography, but has revealed itself in constant intense activity around a few main themes, developed each time through different ways of appearing. The human figure, before everything else, at first fragmented, reduced to a head, arms, hands, feet, details that counted for the whole, and then slowly recomposed to the point of achieving a full figure that today confronts itself with other presences, with other objects of the world. An evolution that has travelled through the surprising forms of vegetables made up of the interweaving of arms and hands placed one on top of the other, in an initial approach – still using metaphors – toward the theme of verticality that has accompanied sculptural action from the very beginning of ancestral rituality. An answer to the initial question is perhaps this – also originating not by chance from the highest examples of modern sculpture from Brancusi to Giacometti – the attempt to make cohabitate the extreme grasping point of tradition represented by fragments of the body sculpted by Rodin with the irruption of a quasi-primitive symbolism; conciliating the fragment and the whole, horizontality and verticality, Michelangelo and l’art négre; deep down, by extension, nature and culture. Following this long phase, in the middle of the first decade of the 21st century, appears the second iconographic motif that characterises the work of Delle Monache, those architectures that in turn are fragmented and then recomposed to form vases, craters, columns: again primary, essential forms consisting however of composite, complex, elaborate parts. Visually, sculptures made of architectures; conceptually, sculptures made of images and forms that come from a memory that is both individual and collective. It is the second possible answer to the initial question: sculpture is memory that becomes matter and space and body. The step that follows is the joining of figure and architecture, which becomes explicit in “Ready-Made in Italy”, a work that like few others in this story takes on a value of poetic declaration, in which the human shape is formed by the facades of buildings. A value that is given also thanks to the element of witzig that is in the title and the figure itself, and which returns with a certain frequency along the path of Delle Monache, as an ironic element which on one hand is in the artist’s natural, character chords, and on the other refers to the lessons of the Great Metaphysician, yet another intellectual side that can be found in this story, well beyond some iconographic reference, however evident it may be. Now, having reached the up-to-dateness of the unpublished works presented in this volume, the core around which the research of Delle Monache has unravelled in the past two years seems to be that of the possibility to make live side-by-side, within the same sculptural space, the same image, the human figure and architecture in its different shapes. To achieve this goal, the artist has first of all again taken up an element that was already present in his previous works, i.e. dimensional exasperation: where previously the limbs or heads took on – solitary in space – gigantic proportions, now the figures are, depending on the case, extremely small compared to the columns and craters in which they are placed, or once again enormous compared to the shape of Italy on which they meditate, rest, swing. They are not given the correct proportion. These sculptures are always portrayals of imbalance, which gives them a dream-like (and together playful) character. On the other hand, “Dream” is the title of the first heads sculpted by Delle Monache, and the column of heads made in 2006 is titled “Dreamery”: as if, during the course of approximately ten years, the sculptor had started his journey from the will to suggest, through a bowed head with closed eyes, the desire to dream, and finally reached a point of providing not a captioned illustration of that moment, but the image of potential of that moment, as well as, of course, everything that this entails in terms of relation with the world and with the processes of artistic creation (as other modern artists taught during the course of the 1920s). Even though, in actual fact, the faces of Delle Monache are not characterised individually, psychologically, they are not pure form, but rather human figure in the fullest sense of the term; though in a parallel world, they live. With regard to this theme, just a few years ago I wrote: “some heads find themselves looking through archways or structures that allow only a narrow opening to view. As if the condition of seeing were, always, a differed, hindered condition that is determined by two apparently opposed conditions that actually converge toward a single objective. On one hand, seeing is the blind sight of the dream, imagination, of the absolute freedom of objective circumstance (…), on the other it is the possibility to see through the overlapping of images created over time. It is the possibility to overcome, through thought, the obstacles to seeing placed by the excess of images that originates from what has been thought, painted, sculpted, built, in thousands of years of history, without the need to inconvenience the current excess of information so dear to the masses of certain contemporaneity. In any case, both hypotheses exercised by Delle Monache lead to the consideration that for the artist it is neither possible to imagine an unfiltered vision of what is real nor, certainly, the work of art; at the same time, both hypotheses find their solution in the accentuation of the visionary character of the artistic experience and of the images from which they draw life. And if this argument is obvious in the practice of seeing with closed eyes, it is less in viewing with open eyes. However, precisely those heads enclosed in imaginary architectural cages speak of this, of a relationship with the world and with its places that takes shape starting from a geometric figure, an arch, a series of windows.” So this is the reason for the enigmatic title “Last Finds” given to this volume: by definition, a find is an object found at the end of meticulous searching, it is the result of a process of investigation, of actions and reflections. This is what the sculptures of Delle Monache are today, the result of research in the history of modern sculpture and in his own creative history; finds that are surely the last, but only in chronological order.
Tratto dal catalogo della mostra SCULPTURES ET DESSINS, Salle Capitulaire Cour Mably, Bordeaux, ed. Grafiche dell’Artiere, 1998
VENTINOVE RIGHE A MEMORIA
Studente prima, collega poi, sempre con la medesima ossessione,
fare scultura, vedere scultura, parlare scultura: questo, per me,
Paolo Delle Monache nel nostro ormai non brevissimo periodo
di frequentazione. Un’automobile, dal cui retro escono ad uno ad
uno i brani di una scultura, prima un braccio, poi un altro, poi
una testa: si compongono su un marciapiede, e ciò che stupisce
non è la perizia tecnica (dato già acquisito, e pure con la
medesima ossessione coltivato), non è la figura (variazione
su La Pisana di Martini, un’ossessione, ancora), ma il vuoto
che la significa, lo spazio non detto, non materiato, che diviene
scultura, e pensiero di forma.
“Fa che io sia…”, sarebbe facile qui citare il grande veneto,
come sarebbe altrettanto facile (e corretto, credo) ricordare
Valentini (“Una volta Norio Shibata mi ha detto…”), ma, per
l’appunto, non è questione di citazioni, ma di nourritures; e
quelle non si dicono, si masticano, stanno dentro la pelle, non
sulla lingua (ed è poi lecito sospettare che questo sia un
discrimine capitale nella formazione, e nella maturazione, d’un
artista).
Scultura come architettura, dice Delle Monache: architettura
come misura dello spazio, si dovrebbe allora aggiungere; d’uno
spazio che si vuole ancora in scala umana, e rifiuta a priori non
solo la retorica monumentale, ma anche l’anacronistica
rivendicazione d’un primato antropomorfico. Il corpo sta lì
perché è lo spazio più misurabile, e ha dentro di sé la
verticalità del totem e l’orizzontalità della terra, ha i pieni
e i vuoti: ha dentro di sé la scultura.
Come se avesse preso in parola Giacometti, ogni giorno togliere
qualcosa, per aggiungere senso, e realtà.
Bologna, 8 aprile 1998