Marco Meneguzzo

Tratto dal catalogo della mostra EXTRA-LUOGHI, Museo Marino Marini, Pistoia,
Ed. Renografica, 2008

EXTRA: FUORI E OLTRE

Il concetto di “luogo” abita l’arte e la critica d’arte da almeno un trentennio. Da quando, alla fine degli anni Settanta del XX secolo, il filosofo Martin Heidegger è diventato di moda, con il suo linguaggio sempre alla ricerca dell’originarietà delle parole e, quindi, dei concetti. Da allora, il “luogo” è diventato un posto misterioso, mitico e mistico, lo spazio degli accadimenti più intimi ed epocali insieme, perché legati alla sfera originaria dell’uomo e delle sue azioni. Negli anni Novanta la parola, da onnicomprensiva nella sua brevità e nell’assolutezza dell’essere nome senza aggettivi qual era in quella speciale accezione (che andava così bene, era così analogicamente aderente al ritorno trionfale della pittura, e della pittura in fondo narrativa degli anni Ottanta), si è storicizzata, socializzata, è cartesianamente mutata con la semplice aggiunta della preposizione “non”: il “non luogo” di Marc Augé è stato il luogo – ci si passi il calembour – della dimostrazione dell’esistenza della postmodernità globale, con la sua idea di transito, di neutralità, di incontro, di socializzazione, di indifferenza. In sostanza, e anche formalmente, il contrario del “luogo” heideggeriano, così come gli anni Novanta sono stati il contrario, artisticamente, del decennio precedente.
E’ anche per questi motivi che quando Paolo Delle Monache ci propone i suoi “Extra-luoghi” un leggero brivido – di piacere e di preoccupazione ermeneutica – percorre la schiena di ogni critico (o, almeno, la mia). “Extra”, infatti, significa contemporaneamente “fuori” e “straordinario, superiore”, e credo che in questa duplice accezione l’artista ci si ritrovi, magari senza la presunzione filosofica di definire una condizione del mondo, ma sicuramente con l’ambizione di identificare e di far identificare il proprio linguaggio plastico attraverso la tipica ambiguità dell’arte.
Esistono dunque nelle sue sculture recenti – gli “Extra luoghi” datano appena dal 2007 – degli elementi che sono “fuori” e al contempo “straordinari”. Ma “fuori” da che cosa?Fuori, credo, da ciò che la scultura ha sempre inteso come il “cuore” del proprio linguaggio, rappresentato dalla figura umana: si badi, Delle Monache non intende abdicare né alla figura, né tanto meno allo statuto tradizionale della scultura, che gli appartiene in toto, ma è come se volesse inserire la figura nel suo contesto più ampio, cose che, in scultura, è infinitamente più problematico che in pittura o in altre discipline espressive. In altre parole, il centro ideale e visivo della sua scultura resta la figura umana – il volto, il corpo o frammenti di esso -, ma questa è circondata, e talora costruita, costituita da un contesto architettonico che ne istituisce il background formativo, l’essenza intellettuale: come a dire che l’uomo, costruendo il suo habitat, costruisce se stesso. C’è un piacere quasi aristocratico nello scegliere le architetture di cui siamo fatti, architetture che tutti riconosciamo senza saper però identificare – a parte un Cupolone di santa Maria del Fiore e un Colosseo, e forse una facciata vista in una “Città ideale” attribuita a Piero della Francesca o alla sua cerchia -, ma comunque riconducibili alla classicità degli archi, dei frontoni, delle cupole che costituiscono il paesaggio italiano, il paesaggio delle città italiane, cioè di quella cultura solidamente costruttiva e costruita di cui possiamo vantarci, ma solo se ne siamo consapevoli. Delle Monache, oltre ad esserne consapevole, appare anche orgoglioso di questo retaggio: è un “fuori” (ecco il primo significato di “extra”) che tuttavia è talmente connaturato con la nostra esistenza da costituire il moltiplicatore del nostro sguardo sul mondo. Ad esempio, uno di questi “Extra-luoghi” è una sorta di grande parabola concava, simile nella forma generale a quelle che captano il rumore di galassie lontane, fatta di facciate architettoniche che sembrano convogliare il rumore del mondo nel volto che sta esattamente dove – nello strumento tecnologico – si trova l’antenna ricevente: dunque, il “fuori” comunica con noi, il contesto fisico e culturale è il nostro orizzonte – chiuso, aperto, frammentato, in equilibrio precario non importa -senza il quale non esisteremmo e, di fatto, non esisterebbe la scultura di Delle Monache, che fisicamente è costituita in massima parte da questi “luoghi”.
E che siano anche “extra ordinari” ( ecco il secondo significato ) lo si comprende proprio da questo: che senza la loro presenza non ci sarebbe opera o, al massimo, ci sarebbe semplicemente quel volto smarrito nel nulla, o nel primordiale (bello, a questo proposito, il ciclo appena precedente degli “Alberi” composti da mani e da gambe umane).
La cultura costruita – l’architettura – costruisce la scultura, ed entrambi i linguaggi non sono altro, nel caso di delle Monache, che la materia di cui è fatto l’uomo, una specie di metafora plastica dell’esistenza. E si tratta dell’uomo qui e ora (lo scultore non ha paura nemmeno di costruire sagome della Penisola per accentuare questa sensazione di appartenenza culturale e di identificazione intellettuale), di una persona che da un lato porta il fardello di una cultura ingombrante e pesante, dall’altro ha la fortuna di essere ingombrato e appesantito da tanta extra ordinarietà.


EXTRA: OUTSIDE AND BEYOND

The concept of “place” has been living in art and review for at least thirty years, ever since – at the end of the 1970s – the philosopher Martin Heidegger became fashionable, with his language that was always searching for the originality of its words and, therefore, of its concepts.
Since then, the “place” has become a mysterious, mythical and mystical space, a space of occurrences that are both intimate and epoch-making, as they are bound to the origi- nal sphere of man and his actions.
During the Nineties this word, from all-embracing in its brevity and the absoluteness of its being a noun without adjectives, as it was in that special meaning (which was fine the way it was, analogically in keeping with the triumphant return of painting, and of painting that was, deep down, narrative of the Eighties) has become historicised, social- ised, it has cartesianally mutated with the simple addition of the preposition “non”: the “non-place” expressed by Marc Augé was the place – pardon the play on words – where the existence of global post-modernity was proven, with its idea of transit, neutrality, meeting, socialisation, indifference.
Ultimately, as well as formally, it was the contrary of the Heideggerian “place”, as the Nineties were the contrary, artistically, of the preceding decade.
It is also for these reasons that when Paolo Delle Monache proposes his “Extra-places” a slight shiver – of hermeneutic pleasure and concern – runs down the spine of every critic (or, at least, mine…).
“Extra”, in fact, means both “outside, beyond” and “extraor- dinary, superior”, and I believe that the artist finds himself in this double acceptation, perhaps without the philosophical conceit of defining a condition of the world, but surely with the ambition of identifying and enabling others to identify his plastic language through the typical ambiguity of art. Hence his recent sculptures – the “Extra places” barely date back to 2007 – feature elements that are “outside” and at the same time “extraordinary”.
But “outside” what? Outside, I feel, that which sculpture has always intended as being the “heart” of its language, represented by the human figure.
Mind you, Delle Monache intends to abdicate neither the figure nor the traditional statute of sculpture, which is entirely his own, but it is as if he wants to insert the figure in its broader context, something which, in sculpture, is infinitely more problematic than in painting or other expres- sive disciplines.
In other words, though the ideal and visual centre of his sculpture remains the human figure – the face, the body or a fragment of it – this is nonetheless surrounded by, and at times constructed, composed of an architectural context that senses its formative background, the intellectual essence: as if to say that man, when building his habitat, builds himself. There is an almost aristocratic pleasure in choosing the architectures we are made of, architectures that we all rec- ognise without however being able to identify them – apart from the dome of Santa Maria del Fiore and the Coliseum, and perhaps a facade seen in an “Ideal City” attributed to Piero della Francesca or his circle…
– but in any case trace- able back to the classicism of the arches, of the gables, of the dome that constitute the Italian landscape, i.e. that cul- ture so solidly constructive and constructed which we can be proud of, but only if we are aware of it. Delle Monache, besides being aware of it, also appears to be proud of this legacy: it is an “outside” (and here is the first meaning of “extra”) which is however so deeply rooted in our existence that it constitutes the multiplier of our view on the world.
For example, one of these “Extra-places” is a sort of large concave satellite dish, similar in its general shape to those that capture the sounds of faraway galaxies, made of archi- tectural facades that seem to direct the sounds of the world to the face that is exactly where – in the technological instrument – the receiving antenna is located: hence, the “outside” communicates with us, the physical and cultural context is our horizon – whether closed, open, fragmented, precariously balanced is not important – without which we and, de facto, the sculpture of Delle Monache, which physi- cally is mainly composed of these “places”, would not exist.
And the fact that they are also “extra ordinary” (here is the second meaning) can be seen precisely thanks to this: without their presence there would be no work or, at the most, there would merely be that face lost in nothingness, or in the primordial (beautiful, by the way, is the slightly earlier cycle called “Trees” made of human hands and legs).
Constructed culture – architecture – constructs sculpture, and both languages are none other, in the case of Delle Monache, than the matter of which man is made, a sort of plastic metaphor of existence.
And it is man here and now (the sculptor does not even fear building profiles of the Peninsula in order to accentuate this sense of cultural belonging and intellectual identifica- tion) a person who on one hand carries the burden of a voluminous and heavy culture, and on the other has the fortune of being cluttered and weighed down by so much extra ordinariness.


 

Tratto dal catalogo della mostra NON-FINITO, INFINITO, electa, collana pesci rossi, 2013,
in occasione della mostra alle Terme di Diocleziano, Roma

NON FINITO, ROVINA, FRAMMENTO: TRE CONDIZIONI DELLA CONTEMPORANEITÀ

Sull’incontro tra Benoit Felici e Paolo Delle Monache
“Non-finito” come possibilità di infinito è un concetto abbastanza recente della storia dell’arte occidentale, che di solito si fa risalire a Michelangelo. E’ da questo momento che si chiede allo spettatore un’attenzione attiva e non passiva, addirittura un’azione di consapevolezza e di coscienza dirompente che eleva lo spettatore quasi al livello dell’autore, entrambi attoniti e meravigliati di fronte alla potenza della materia che imprigiona la forma, e ancore più ammirati della forza che promana dall’anima, identificata con la forma, che si svincola dalla materia pur senza rinnegarla. Questa tensione è una tensione mistica, una sublime metafora dell’ascesi verso Dio, che l’autore ha provato ad ogni colpo di scalpello, quasi ciascuno di questi fosse una preghiera: così l’artista invita il suo pubblico a unirsi a questa ricerca, costringendolo a interrogarsi sul concetto di “creazione”, che in questo modo diventa quella via di mezzo, quel tramite, quel work in progress che imprime il proprio suggello, ma al contempo lascia “libero” il suo oggetto. E’ una metamorfosi incessante, un divenire ininterrotto tra il non umano, l’umano e il sovrumano.

Si dirà che, al contrario di quanto è avvenuto per l’arte occidentale, in oriente – soprattutto in Cina e in Giappone – il non-finito è la regola. “Perché completare sul foglio ciò che la mente ha già completato grazie allo sguardo?”: l’esempio tipico sono i paesaggi montagnosi dipinti con la china su carta, di cui si vede la cima, ma non la base, artificio adottato in occidente da un Caspar Friedrich, ad esempio, dove però quest’ultimo ha sempre in mente quel “sublime” che mette in contatto l’anima dell’uomo (nei suoi quadri c’è sempre un viandante che guarda dall’alto…) con l’anima della natura, se proprio non si vuole riprendere la metafora mistico-religiosa, e se ne vuole dare un’interpretazione panteistica. La differenza tra le due concezioni, tuttavia, è immensa. In occidente “non finire” un’opera d’arte – soprattutto pittorica o plastica – costituiva una scelta ideale molto coraggiosa e inusuale, volta a evidenziare un significato nascosto, anzi, “interiore” dell’opera: i “prigioni” michelangioleschi, prima di essere l’immagine tradizionale che esalta la figura di chi li ha imprigionati – alla maniera del capo vittorioso che vede sfilare gli sconfitti incatenati – sono prigionieri di loro stessi, della materia bruta di cui cercano di liberarsi, pur essendo fatti di quella. In oriente, “finire” un’opera così come si intende in occidente, è da sempre inutile, è un gesto di troppo che offende lo sguardo e l’intelligenza dello spettatore, ne preclude la fantasia, e contrasta con quello spirito essenziale che deve preservare ogni energia, senza sprechi superflui. Da un lato, dunque, la lotta e la tensione, l’ascesi e la contemplazione dell’abisso, dall’altra un’adesione naturale a un sistema condiviso di rappresentazione. Che poi di quest’ultimo se ne possa notare il fascino, è altra cosa, ancor più recente, forse risalente alla passione per l’oriente manifestata dagli artisti occidentali a partire dagli anni cinquanta del XX secolo, e comunque fuori dall’orizzonte di questo breve scritto. Ciononostante, l’excursus verso altri “non finiti”, geoculturalmente diversi, potrebbe essere la premessa per trascorrere linguisticamente verso altri lidi, attraverso uno scivolamento, un dècalage tra parole e definizioni che rischiano di portare anche (molto) lontano. Ad esempio, il “non finito” orientale mi sembra mostri qualche analogia col “non detto”, che non è soltanto la trasposizione del “non finito” nell’ambito del logos, della parola scritta o parlata, e dei comportamenti interpersonali, ma qualcosa che comincia ad allargare il campo d’azione del “non finito” sino a comprendere pratiche molto differenti da quelle appena descritte. “Non detto” è un termine ancora neutro, che non implica per il momento accezioni negative: non si dice ciò che si conosce già, ciò che è sottinteso, addirittura ciò che si sa già che viene condiviso con tuo silente compagno, o uditorio. Tanto per operare un altro scivolamento – a ritroso stavolta, tornando cioè a un’immagine e non alla parola -, se applicassimo il concetto di “non detto” alle montagne cinesi dipinte, questo sarebbe semplicemente la constatazione che la base di quelle montagne è perfettamente conosciuta dalla mente che completa l’immagine, e quindi è inutile che venga “detta” figurativamente. Ma se ci ponessimo la stessa domanda di fronte alle colline immerse nella nebbia di Friedrich (che sono solo “simili” al non finito orientale, ma nell’essenza assai diverse e, in fondo, “finite”)? Alla base di quei monti, in mezzo a quella nebbia, non c’è il “non detto”, ma l’ignoto. C’è un mistero. C’è “l’inespresso”. “L’inespresso” è vicino al “non detto”, ma è già lontano dal “non finito”. Con quest’ultimo condivide una sorta di macerazione creativa – che è assente nel “non detto”, psicologicamente più superficiale -, ma senza quella luce presupposta dal “non finito”, che gli deriva dall’idea di trascendenza superumana: “l’inespresso” è umano, troppo umano, legato ancor più all’individuo che alla collettività, alla massa, ed è una condizione limitante, invece che tendente all’illimitato, come nel caso del “non finito”. I due termini, e le condizioni che li producono, nonché gli effetti che ne derivano, sono dunque opposti, anche se sono il frutto di spostamenti quasi impercettibili di significato e di applicazione. C’è comunque da ricordare che “non finito”, nell’ambito dei linguaggi specializzati, appartiene solamente al linguaggio delle arti visive, mentre gli altri – due, per ora – possono spaziare anche in altre discipline, soprattutto nella letteratura e nella psicologia. Si potrebbe quasi dire che “non finito” – così come gli altri termini che vedremo tra poco, non propriamente legati all’arte, ma vicini all’ambito generale della “costruzione” – è dotato di una fisicità materiale che gli altri non hanno, e di una sorta di robustezza persino maggiore di quanto non ne possegga il “finito” propriamente detto, che vive tendenzialmente di forma e solo secondariamente di materia, mentre forma e materia nel “non finito” sono equamente importanti e si sostengono a vicenda. E se il cotè su cui lavorare, seguendo il suggerimento e il filo delle parole più ancora che delle idee, è quello della fisicità (non dimentichiamo che lo spunto di questo scritto è l’opera di uno scultore e quella di un cineasta), accanto all’aulicità del “non finito” ci può essere, come Sancho Panza accanto a Don Chisciotte, la volgarità dichiarata del “non terminato”. Il confronto tra “non finito” e “non terminato” è una sorta di trasposizione della dialettica tra arte e realtà, tra opera e manufatto (in una situazione pre-crociana, avremmo addirittura osato parlare di arte e non arte…). Il “non finito” riguarda l’arte, il “non terminato”, di solito, un lavoro pubblico, come quel viadotto in Sicilia, ripreso da Benoit Felici, in “Unfinished Italy”: differenza essenziale, frutto il primo della volontà sublime dell’artista, la cui opera “non finita” diventa “infinita”, grazie alla costante correlazione tra idea e materia, mentre la seconda – è inutile dirlo – è il frutto più bieco o della stupidità o della malversazione politica. Qualcuno potrebbe obiettare che “non terminato” è semplicemente una condizione temporanea, e che la definizione si addice in maniera neutra ad ogni costruzione architettonica o ingegneristica, tanto che anche la Sagrada Familia di Gaudì, a Barcellona, si potrebbe definire “non terminata”. In realtà, quel monumento alla fede dell’uomo è “infinita”, proprio perché l’architetto l’aveva pensata come analogia dell’organismo vivente che è la comunità civile e di fede: non a caso la condizione per la sua erezione era che ogni mattone fosse il risultato di una donazione spontanea di singoli cittadini, per cui la durata nel tempo, la costruzione infinita – oltre a citare l’erezione delle grandi cattedrali del passato, che necessitavano anche di secoli per essere ultimate, e di fatto non lo sono mai… – sarebbe stata l’immagine vivente del divenire e del trascorrere di generazione in generazione di un’idea di fede, che si vuole eterna. Altro è un viadotto che si protende nel nulla di un paese siciliano dove le case non sono mai intonacate: la differenza è nel valore simbolico di uno e nel valore d’uso del secondo.

L’attitudine che si mette in campo nei confronti dell’arte, la predisposizione alla complessità linguistica che essa richiede ci consente di accettare la non finitezza di un lavoro d’arte come finitezza e come infinitezza al tempo stesso, mentre la sola visione del manufatto, dell’opera pubblica, dell’architettura non terminata e abbandonata ci impedisce ogni considerazione benevola, non rientrando questa nel linguaggio dell’arte ma in quello della realtà concretamente sfruttabile. In altre parole, il valore simbolico non viene mai meno, anzi, a volte – come si è visto – il valore simbolico del “non finito” aggiunge senso all’opera, mentre nel secondo il valore d’uso è (quasi) tutto, e venendo meno questo, viene meno l’intero scopo del manufatto o, peggio, questo diviene il simbolo negativo, l’emblema tangibile di un colpevole “non terminato”. Eppure, persino in quest’ultimo caso, indiscutibile dal punto di vista sociale e politico, uno sguardo raffinato (ed estraneo a quella società che ha prodotto lo scempio) può giungere a considerare quel “non terminato” come una “rovina architettonica”, e a proiettarsi nel futuro attribuendo a quel manufatto un quoziente di malinconia che lo nobilita. “Le opere incompiute hanno la bellezza di ciò che avrebbe potuto essere. Di ciò che non esiste ancora. Di ciò che forse un giorno ci sarà” è scritto ad esergo del già citato “Unfinished Italy” di Benoit Felici e anche de “L’esperienza del non-finito”, da un’idea dello stesso e di Paolo Delle Monache, scultore: “liberamente ispirato – si continua – da ‘Rovine e macerie’ di Marc Augé”, queste poche righe portano a conseguenze impreviste persino le tesi più estreme rivolte al concetto di “rovina”. Ma qui si è operato un ulteriore dècalage linguistico, di non poco conto, e tuttavia non proprio impossibile, per quanto azzardato, che trasforma il “non finito” – e addirittura il “non terminato” – in una sorta di “rovina”, con tutto ciò che questo termine porta romanticamente con sé. Personalmente, continuo a considerare quel viadotto interrotto un simbolo dell’arrogante stupidità politica, ma sono disposto a provare a considerarlo (assieme a tutte le altre opere pubbliche prese in considerazione dal documentario di Felici) come una “rovina”, invece che come una “maceria”, secondo la bella intuizione di Augè.

Il gusto che ci fa apprezzare la “rovina” non è lontano da quello che ci fa amare il “non finito”: pur essendo due atteggiamenti diversi – soprattutto all’origine! – essi hanno entrambi a che fare col tempo, e con un tempo molto particolare che è quello della memoria. Per la “rovina” ciò appare ovvio: la “rovina” è la vestigia di una grandezza passata, sia che ci troviamo di fronte alla piramidi, che a un semplice rocchio di colonna greco-romana. In questo caso lo sguardo non vede l’oggetto, ma immagina ciò che è stato – una parte importante o infinitesima di un sistema, non importa, tanto è caratterizzato… -, “…e gli sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva e il suon di lei…”: la citazione da “L’infinito” di Giacomo Leopardi ci pare davvero calzante in questo caso, perché proprio la “rovina”, collocata in un tempo mitico, consente di spaziare nel tempo e nello spazio, di vagheggiare un’età dell’oro che quasi sempre non corrisponde alla verità storica, ma che comunque non ha nessuna importanza in questo contesto. E’ una sorta di sineddoche visiva: la parte – in questo caso la “rovina” – per il tutto. Il rocchio di colonna “sta per” tutta la cultura classica. La mente completa il paesaggio umano che circonda la “rovina”, a suo piacimento, perché la mente ama crogiolarsi nella nostalgia, e quando non ha appigli per essere nostalgica di qualcosa, arriva a creare questo qualcosa, come quei ragazzi quindicenni nostalgici degli anni cinquanta, che non hanno mai visto né vissuto. Il tempo della memoria scatenato dalla contemplazione della “rovina” appare però come un tempo sostanzialmente rivolto all’indietro, al passato (anche se si può ipotizzare una “nostalgia del futuro” che parte comunque da un’insofferenza per il presente…), mentre si potrebbe obiettare che il tempo del “non finito” è un tempo proiettato nel futuro. Se infatti il “non finito” invita lo sguardo a completare ciò che non è stato volutamente finito dal suo autore, questo atto dovrebbe essere collocato nel futuro, nel campo delle possibilità, ma a ben vedere esiste una fortissima componente che guarda all’indietro, a ciò che è stato, anche nel caso del “non finito”, perché fondamentale in questo caso appare il “punto di partenza”, l’origine, la materia bruta. Così, sia che si tratti di “non finito” o di “rovina” il senso di un passato originario – non importa se completamente inventato – entro cui riconoscersi, o almeno da riconoscere, appare come terreno comune, brodo di coltura e di cultura.

Fin qui, la costruzione teorica, che tuttavia si trova a fare i conti con un’accezione sinora francamente impensata degli stessi concetti, per cui qualcuno –nel nostro caso Felici e, a ruota, Delle Monache, con un atteggiamento però diverso, come vedremo – è disposto a riconoscere anche all’edilizia del malaffare uno statuto di nostalgia, pensando – testuale – a “ciò che avrebbe potuto essere” (cioè il passato), a “ciò che non esiste ancora” ( il futuro), a “ciò che forse un giorno ci sarà” (futuro ipotetico). Qui “l’incompiutezza” (termine neutro) non è frutto di volontà, ma di negligenza o di colpa, e tuttavia è stata sufficiente una presenza muta per qualche anno per trasformare un obbrobrio in un manufatto accettato, addirittura generatore di sentimenti romantici… certo, non è da sottovalutare la capacità di paradosso di certi intellettuali – e ho la sensazione che Felici sia tra questi -, che pensano alle possibilità maieutiche di questi paradossi, così come all’esistenza di “luoghi” della memoria e della nostalgia anche dove (quasi) nessuno andrebbe a cercare, ma di fatto, se qualcuno li considera tali, dobbiamo porci il problema del perché questo accada, e vengono in mente da un lato certi sinceri trasporti per il trash, dall’altro la compassione (letteralmente “patire insieme”) per certe situazioni che fu già di Pier Paolo Pasolini, dall’altro ancora la consapevolezza che le rovine della contemporaneità sono queste, e che, nonostante si tratti di “macerie” – sempre le famose “macerie” della Postmodernità di Augé -, le trattiamo da “rovine” per potervi sopravvivere.

Ciò nonostante, non ci si trova di fronte a questa sola condizione, linguisticamente determinata dalle sole immagini documentarie di Felici, perché la nostra interfaccia attuale è l’intero progetto a quattro mani tra Felici e Paolo Delle Monache, che introduce altri elementi possibili di analisi. Nella sua qualità di scultore, infatti, e di scultore il cui soggetto è la città dell’uomo, Delle Monache immette un’ulteriore variante tra “non finito”, “non detto”,“rovina”,”maceria”, e “incompiuto”: è l’idea di “frammento”.

Anche il “frammento” ha una lunga storia alle spalle, molto vicina a quella del “non finito” e a quella della “rovina”, ma probabilmente più moderna: al contrario di questi ultimi termini, il “frammento” non ha eccessive implicazioni romantiche, perché non comporta come essenziale né l’idea di un’individualità esasperata e portata in primo piano, come nel “non finito”, né l’idea di una grandezza passata, come nella “rovina”. Per questo, il “frammento” è stato usato nell’arte della Modernità – e anche dopo – senza la remora del passatismo, con una certa disinvoltura, quasi fosse non tanto una metafora del passato che si presenta sotto forma di “frammento”, ma come emblema della frammentarietà della condizione umana attuale. Certo, il frammento architettonico, che è quello su cui lavora Delle Monache, è molto vicino alla “rovina”, soprattutto quando le sagome bidimensionali che edificano le colonne, le vele traforate, le stele bronzee sono costruite con sagome riconoscibili di monumenti famosi, e l’uomo, spesso l’unico elemento decisamente tridimensionale, vi è inserito all’interno, quasi fosse il catalizzatore di tutte le memorie che lo circondano: come nel caso delle “rovine”, anche qui l’intero edificio della cultura e della memoria è costruito sull’insieme dei “frammenti” (e forse anche degli stereotipi) della nostra storia, con la lieve differenza, rispetto alla “rovina”, che ora “tutto” è “frammento” e tutto è “rovina”, senza tuttavia quell’afflato di decadenza, di sgretolamento, di tempo passato che è proprio della singola “rovina”. I “frammenti” di Delle Monache non sono dunque “rovine” in senso stretto, anche se vi si discostano poco, perché sono ridotti a sagome, a icone del monumento: in una parola sono “ripuliti” dei loro coinvolgimenti sentimentali, mentre mantengono in toto le loro connessioni razionali, che individuano una cultura di provenienza.

Una volta presentate singolarmente le due azioni di Felici e di Delle Monache, è necessario considerare il loro incontro, per capire la qualità delle ibridazioni derivate dal loro incontro (tra l’altro, questo incontro avviene all’interno di reali “rovine” romane, le Terme di Diocleziano…). Nei fatti, le immagini di Felici vengono proiettate sulle opere di Delle Monache. Nuove “rovine” su antichi “frammenti”.Quale il significato? Forse conviene affrontare la questione in maniera quasi letterale, per ricavarne un significato metaforico in fondo semplice: le nuove “rovine” si sovrappongono ai vecchi “frammenti” così come il nuovo paesaggio urbano si sovrappone al vecchio, con tutte le devastanti conseguenze derivate dalla mancanza di coerenza architettonica – e dunque morale, ideale, linguistica – della contemporaneità rispetto all’antico. Questa lettura moralista, contrapposizione assoluta e giudizio senza appello in favore dell’antico, è probabilmente la più facile, quella che anche i servizi televisivi più banali potrebbero restituire a uno spettatore tanto bombardato da immagini e da commenti retorici da diventarne refrattario, ma se per un attimo riuscissimo ad abbandonare lo stereotipo ridondante – e anche a dimenticare l’intrinseca specificità, anch’essa stereotipata, dei media con cui si presentano le due azioni, per cui il video sarebbe reportage contingente e la scultura l’immagine dell’eterno – e ad astrarre le immagini dal loro significato sociale, potremmo forse vedere un’idea di futuro dove un viadotto interrotto vale il Colosseo. Vogliamo vivere in quel paesaggio? L’arte contemporanea, checché se ne dica, non ha tra i suoi compiti principali quello di essere consolatoria.


Tratto dal catalogo della mostra METROPOLI, Aska edizioni, 2017
in occasione della mostra alla Ciemmeci Fashion, Torrefino di Empoli

Caro Paolo,

mi hai parlato del desiderio di titolare questa tua nuova mostra “Metropoli”, e soprattutto mi hai raccontato di come vuoi allestirla, in uno spazio non deputato all’arte, pieno di vetrate che intendi ricoprire coi tuoi grandi cartoni “di città”, quella specie di riduzione bidimensionale dello spazio che appare tanto strana per uno scultore, solitamente votato alle tre dimensioni. Mi sono formato nella mente un luogo ideale, con le caratteristiche che mi hai raccontato – ma senza tutti quegli “impedimenti” visivi tipici di un luogo di lavoro, cartelli, condizionatori, eccetera … -, per cercare di astrarre la tua azione ed entrare nelle tue intenzioni. Quel che mi è venuto in mente, e continua a ritornare quando penso a questo tuo lavoro, è una sorta di “rovesciamento” del concetto di spazio, dal dentro al fuori e viceversa.

Mi spiego. Innanzi tutto mi pare davvero interessante e riuscito il paradosso per cui elementi bidimensionali riescono a costruire uno spazio, e addirittura uno spazio “abitabile”. Certo, questo era già presente in nuce nelle opere di qualche anno fa – e di oggi -, quando alcune sagome di edifici, incastrate tra di loro, saldate o appena poggiate come in un castello di carte, costruivano uno spazio tridimensionale, come con le quinte di un “teatro urbano”, il palcoscenico delle nostre azioni; qui vai oltre, perché costringi chi guarda, vive e lavora in quello spazio a diventare uno dei tuoi personaggi, una specie di “scultura vivente” a sua insaputa o suo malgrado, almeno fin che non si rende conto di essere protagonista dell’opera. Un tuo lavoro di qualche anno fa – “Archeologia di un istante” – mostra una persona seduta entro una specie di conca, con la forma delle parabole delle antenne che captano i segnali dallo spazio, costituita però da facciate di edifici affiancate, sovrapposte, accumulate. “Ascolto il tuo cuore, città” avrebbe detto Alberto Savinio, e in questo senso mi pare che la tua metafora sia chiara: la città trasmette flussi di immagini e di sensazioni a chi li può e li vuole comprendere, a quell’individuo, solo, che è in ascolto, un po’ smarrito di fronte a tanta responsabilità, la responsabilità di accogliere, di ritenere e forse di restituire quell’enorme “rumore di fondo” che è la colonna sonora della vita.

In questa situazione, con questo allestimento, ogni persona che si trovi a transitare o a lavorare “racchiusa” entro il tuo skyline che stabilisce il perimetro dello spazio dell’opera, diventa quell’individuo, quel personaggio angosciato ma anche “eletto”. L’altro esempio che mi sento di proporti non appartiene a una tua opera, ma è niente meno che quel capolavoro di Edvard Munch che è “L’urlo”. Al contrario di te, che sei mediterraneo sino al midollo – come testimoniano le tue opere, in fondo conchiuse e definite nei loro contorni, mai espressioniste -, Munch non mette in rapporto l’uomo con la città, ma con la natura, e quel singolo che riesce a percepire “l’urlo della natura” non può che sbarrare gli occhi, tapparsi le orecchie e gridare a sua volta, con quella maschera umana che ha sicuramente ispirato i costumisti di “Scream”, fortunata serie di film horror. Tu non arrivi, perché non ci vuoi arrivare, all’inaudibile, perché hai ancora fiducia in questo rapporto tra uomo e città, che dopotutto è il prodotto dell’uomo, e che in passato è stato anche un prodotto armonico, unitario, coerente, “bello”, come ci ricordi inserendo qua e là facciate di chiese famose, frontoni di palazzi di epoche in cui la città era un ordinato sistema di simboli e di gerarchie: certo, come per l’uomo di Munch, anche per il tuo uomo è duro sopportare questo fardello non essendo neppure uno degli angeli de “Il cielo sopra Berlino”, in grado di sentire i pensieri di tutti, e cioè il respiro della città, e di lì viene quel senso di smarrimento, di interrogazione verso se stessi, che tutti i tuoi personaggi sembrano manifestare. Lo faranno anche gli abitanti viventi dello spazio che hai preparato loro? Quasi certamente no. Ma se qualcuno di loro, stando dentro questo spazio, non penserà di star “guardando fuori”, verso una città simulata che non c’è, ma si renderà conto invece di “essere dentro” quella città, e di essere il catalizzatore di tutto quello che una città trasmette, di essere un’antenna ricevente del paesaggio urbano fittizio ma potenzialmente infinito entro cui l’hai posto, allora forse proverà quella leggera vertigine che viene dal potere e dalla responsabilità: il potere di sentire, la responsabilità di capire. E la solitudine di essere in mezzo a tanti.